Abitare l’Italia

 

Il “popolo dei senza parola”*, gli ultimi e dimenticati della società italiana, cui la parola e la dignità di persone è stata restituita dalla comunità ecclesiale laica di Sant’Egidio - che è una delle realtà attive in Italia sul fronte della lotta alla marginalità e all’esclusione - sono stati invitati dalla Presidenza della Repubblica a partecipare alle celebrazioni per  150 anni della Unità d’Italia, dichiarando con dipinti e parole la loro visione storica e critica di ciò che individualmente  hanno identificato come episodio o evento o personaggio particolarmente significativo, nei 150 anni appunto attraverso i quali l’unità d’Italia si è costituita.

Nei laboratori sperimentali d’arte della Comunità di Sant’Egidio, creati a Roma, dove con un lavoro sistematico persone disabili sono quotidianamente sottratte alla indifferenza del mondo e alla inconsapevolezza culturale, sono state create, 150 piccole pitture o assemblages da 150 di loro, sono stati elaborati testi , memorie e scritture, di cui ciascuno si è assunta libera responsabilità.  Un noto artista internazionale, Anton Roca, è stato inoltre invitato a realizzare una sua opera insieme ad alcuni di loro, responsabilizzandoli ed includendoli e coinvolgendoli nel suo progetto creativo di installazione scultura. E’ un’opera che si chiama tavoloITALIA, composta di tanti tavoli quante sono le regioni italiane, la cui sagoma  è stata abitata, i cui abitanti raccontano le individuali esperienze di vita italiana e nei cui anditi ciascuno ha lasciato un dono, una traccia di memoria o desiderio o aspirazione.

Possiamo parlare di condensazioni concettuali o visuali di vite ed esperienze spesso molto diverse, ma caratterizzate tutte almeno da un passaggio , più o meno lungo, più o meno superato, nelle strettoie dell’esclusione o del razzismo.

 

Che cosa avviene quando un artista, nel nostro caso l’artista italo- catalano Anton Roca, entra a creare un’opera su e insieme a persone di margine? Invitato da me , che appartengo al cosiddetto sistema dell’arte e invitato dalla Comunità di Sant’Egidio, che ha creato i Laboratori sperimentali d’arte per le persone cosiddette disabili, di cui si prende cura a vasto raggio, in Roma e in Italia? Invitato dalla Comunità di Sant’Egidio che dal 1968 ha avvicinato e si è presa  cura ,in Italia e nel mondo, di coloro che scandalosamente la società e le istituzioni molto spesso dimenticano e lasciano al margine?

Che cosa avviene ai marginali e agli esclusi in questo incontro creativo e di collaborazione?

Perdono la loro tipizzazione , la loro esclusione e diventano persone, creano, mettono in gioco i loro limiti e istituiscono segni, ristabiliscono il contatto proibito col mondo.. Si cancella la “smemoratezza”, si attua un racconto, si condensa una idea, un pensiero critico, una immagine.

Che cosa avviene all’artista?

Cambia, perde i suoi pregiudizi, crea una altra opera d’arte delle sue, specifica di questa nuova relazione col mondo dell’altro, dell’escluso,

Che stiamo facendo?

L’entrata in campo di artisti affermati (cioè legittimati dal sistema dell’arte) nei laboratori di Sant’Egidio, non è che l’ultimo atto di un lungo processo intrapreso dai membri della Comunità di Sant’Egidio,che operano volontariamente e gratuitamente fin dagli anni della fondazione.

I disabili appartengono alla schiera grandissima di quelli che sono gli Ultimi nella nostra società organizzata standardizzata, normata secondo i pregiudizi difensivi , che sono patrimonio  ahimè permanente della maggior parte di noi.

 Esclusione, ghettizzazione, emarginazione, cacciata, nascondimento, sono la moneta corrente che viene spesa. La società così sublima una fondamentale ignoranza ed indifferenza verso l’altro, il diverso dalla normata standardizzazione.

Dicevo che questo è l’ultimo atto,talvolta il più travolgente, di un processo che nella comunità di Sant’Egidio, inizia  da zero,attraverso una relazione con loro da persona a persona, e poi: con la sottrazione alla ghettizzazione o all’istituzionalizzazione e all’esclusione  dai luoghi del lavoro, dai luoghi della società, talvolta dalla famiglia stessa; procede con la creazione di leggi per l’inclusione nella scuola in classi comuni (e non differenziate), continua con la sollecitazione di processi comunicativi individuali (parola, scrittura) fisicamente impediti ma attivati con moderne tecnologie informatiche; con la creazione e immissione in lavori; con la realizzazione di luoghi –i laboratori del disegno e poi sperimentali di arte- luoghi di incontro periodici sistematici, nei quali si studia, si discute, si tematizza, si osserva e analizza il mondo, si crea.

Rottura totale del pregiudizio della stupidità, scoperta dell’intelligenza inespressa, svelamento di punti di vista percettivi e critici nuovi, di persone speciali insomma, con le quali si può felicemente godere insieme della vita e dei suoi disastri.

 

L’entrata in campo dell’artista è stata intuitiva, nei curatori dei laboratori: (non artisti, loro). Ma la verità è che artista e cosiddetto disabile vengono a trovarsi in un punto che dona loro un punto di stazione(Brandi) analogo, da cui partire per ordire la propria significazione sul mondo, sulla realtà:

L’artista infatti è  proprio l’Altro: E’colui che , consciamente o inconsciamente, il giorno che si fa “artista”, si mette anche in congedo dal mondo, si separa, si riconosce altro: ed è “dannato per sempre” , però, a fare del mondo la materia privilegiata della sua creazione artistica: da quel momento ogni azione di quell’uomo artista sarà affermazione di identità di sé nel confronto critico col mondo, col reale. Mondo con cui oggi molti artisti instaurano un processo relazionale, chiamandoli io per questo artistiipercontemporanei”.

Il processo dell’artista è misterioso. La sua decisione, auto iscrizione, insondabile. Ma chiara. La scelta, essenzialmente etica. Uno di questi, ad esempio, è Anton Roca, che ha una lunga storia di “avvicinamento” che ha chiamato “luogo comune”, di relazione e di inclusione nell’opera sua di figure, persone, in stato di sofferenza o uscite da uno stato di esclusione, oppure persone ormai avviate in un difficile processo di inclusione sociale. Così era nata anche l’opera di Roca  TAVOLǼUROPA,

Il marginale o il disabile, d’altro canto,nel suo stato di escluso, ghettizzato, rifiutato o cacciato, nascosto o istituzionalizzato (messo cioè separato, in una istituzione di segregazione), è  stato reso artificiosamente Altro.

Ininterrotta la dimenticanza della persona e della sua storia, rotti i confini dei limiti fisico neurologici, naturali, alla comunicazione,  il disabile resta –per decisione sociale perversa, un diverso dalla norma socialmente e culturalmente iscritta. Anche lui il disabile è proprio un Altro,, con il mondo davanti a sé. Ma anche lui, è ora pronto all’azione, alla affermazione di sé come persona, alla azione sul Mondo.

L’incontro e il lavoro insieme con l’artista, il lavoro nei laboratori d’arte, è talvolta esplosivo: insieme si accingono all’azione creativa di sé sul mondo; da sé al mondo.

La parola restituita, inoltre, e lo studio     della storia contemporanea consente loro di lanciare messaggi, parole, giudizi, sulla storia d’Italia negli ultimi 150 anni. Un giudizio che viene dal loro punto di vista qui ora, attuale.

L’escluso, l’emigrante qui inseguito da leggi severe, cosiddette della paura,  dopo essere stato realmente inseguito nel suo lungo cammino di fuga da paesi inaccettabili; il carcerato, cui non è stata offerta una ipotesi di riabilitazione e reinserimento, come invece previsto dalla nostra Costituzione; l’ex-deportato in campo di concentramento nazista che non ha potuto o voluto raccontare l’umiliazione delle violenze subite e ossessionato dalla propria memoria e dall’indifferenza dolorosa dei concittadini; i barboni o i senza casa (che sono 6000 oggi a Roma); gli invisibili – i bambini nati in Italia ma non riconosciuti italiani; i vecchi abbandonati e terrorizzati e depressi nella solitudine non cercata; i rom, scacciati da un campo all’altro, oggetto di pregiudizi atavici e storici, che loro stessi smentiscono in un cambiamento culturale sempre più evidente: tutti loro raccontano, invitati da Anton Roca o invitati a farlo, da sempre, dagli amici della comunità. Ed il racconto di ciascuno di loro o si concentra in un gesto , in un dono di tracce che Roca ha chiesto loro. Chiesto come un gesto/dono di un desiderio inaudito, o gesto/dono relativo a una memoria orribile e di una parte nascosta di sé: come segni, infine di “abitazione” di “modo di abitare” il territorio fisico e psicologico dell’Italia.

L’alterità riguarda l’arte?

Ma questa esclusione o autoesclusione, questa condizione di marginalità , insomma questa condizione di alterità, riguarda l’arte? Perché?

Sì, perché da storica , cioè da storica non solo dell’arte, ho visto che da sempre, in special modo nella grande cultura italiana dall’Unità in poi, che l’Alterità ha riguardato l’Arte.

Il mondo dell’Italia nascosto, separato, rifiutato, disprezzato, segregato, schiavizzato, ha richiamato gli uomini artisti fin dagli anni  1880, e ciò ha determinato dei mutamenti, nella vita, delle scelte nel linguaggio, delle scoperte scientifiche nella medicina e nella pedagogia, delle rotture infine delle gabbie istituzionali, che fanno dell’Italia un paese all’avanguardia. Che resterebbe tale, se –speriamo temporaneamente, non fosse l’Italia oggi dominata da detentori della opposta cultura del disprezzo, del razzismo, della paura.

L’artista, in quanto tale – ma anche in quanto catturato dagli originari ideali umanitari- e l’arte in quanto atto determinato al gesto creativo di trasformazione di un mondo e inaccettabile, sono stati perno propulsivo di cambiamenti importanti nella mentalità e nel costume.

Quando –come oggi- si disperava che l’arte cambiasse la vita- ritessiamo questo filo rosso, dell’Arte, di certi uomini artisti, che cambiano la vita.

Ma attenzione è una cosa di arte che non è solo arte , come purtroppo accade di leggere nella letteratura critica e nella storiografia dell’arte., dove la integrità complessa di senso e  ruolo dell’arte appare sbiadita. E’invece una cosa che vede incontrarsi e muoversi a questo avvicinamento  pittori,(Nino Costa, Giacomo Balla, Duilio Cambellotti, i XXV della Campagna Romana) insieme a poeti (Giovanni Cena), insieme a medici(Angelo Celli), insieme ad attrici e scrittrici (Sibilla Aleramo), a pegadogisti (Alessandro Marcucci), Filosofi (Maria Montessori) e perché non anche parlamentari (Angelo Celli), psichiatri (Franco Basaglia), sacerdoti artisti (don Milani).: uno straordinario movimento tra campi, un movimento interdisciplinare tutto umanistico.

 

Mi chiedevo come sia possibile, ancora, la persistenza di un incredibile numero di  strutture costrittive e di una scuola non ancora integralmente “inclusiva”, qui in Italia dove possiamo un tracciare quel lungo ininterrotto filo rosso di azioni, metodologie educative, iniziative liberatorie delle facoltà e dell’intelligenza, che attraversa la storia dell’Italia Unita, spezzato solo sotto la Dittatura cui siamo stati sottoposti nel ventennio Fascista  . Da Nino Costa (1826-1903) con la sua associazione In Arte Libertas, a Maria Montessori ( 1870-1952) che muore due anni prima della creazione della scuola di Barbiana di Don Milani, al sodalizio –nato da una sezione dell’Unione Femminile Romana aperta in Trastevere di Alessandro Marcucci (1876- 1968), della poetessa Sibilla Aleramo, di Giovanni Cena, dell’artista Giacomo Balla, di Anna e di Angelo Celli, il medico scopritore della cura e prevenzione della malaria, organizzatore di un piano di assistenza educativo- sanitaria per la popolazione contadina della campagna Romana e delle paludi pontine. A tale sodalizio, impegnato a promuovere l’alfabetizzazione dei contadini della campagna romana attraverso la messa a punto di un sistema didattico e la costruzione di scuole rurali, si unisce l’artista Duilio Cambellotti dai primi anni dieci del novecento, e in tale ambito realizza la decorazione di diversi edifici scolastici, illustra le pagine di sillabari e libri di lettura. Con loro organizza la Mostra dell’Agro Romano, all’Esposizione Universale di Roma del 1911.

 E’ lì, in occasione della grande Mostra ai Prati di Castello per il Cinquantenario dell'Unità, dove i Sovrani visitarono con meraviglia le attività delle scuole, ricreate in un apposito padiglione provvisto di capanna-scuola, che l’Italia poteva sembrare africa, con le sue vere capanne circolari coperte di tetti di paglia, là nella palude pontina, dove coabitavano più famiglie di contadini.

"Ecco la scuola doveva dare a questi ignoranti e reietti, senza terra, senza anagrafe, una cittadinanza umana e civile. Era questo ben altro assunto che fargli compitare ed eseguire un addizione! La scuola con tutti i suoi sviluppi diveniva lo strumento non soltanto di assistenza materiale, ma di un affermazione dei diritti sociali, di una denunzia al mondo civile d'una superstite feudalità tanto più iniqua quanto più si esercitava sotto forma di commercio, all'ombra di qualche articolo del codice."

Il medico Angelo Celli comprese anche che occorreva scuotere le popolazioni analfabete portate ad un'accettazione fatalista della malaria. A lui in particolare si deve non a caso ricondurre la promozione della costituzione dell'ente nazionale Le Scuole per i Contadini dell'Agro Romano e le Paludi Pontine. L'opera del Celli contro la malaria fu d'esempio ad altri paesi dai quali ebbe numerosi riconoscimenti (Laurea Honoris Causa dell'Università degli Studi di Atene , di Aberdeen e del Regio Istituto di Salute Pubblica di Londra, medaglia d'oro Mary Kingley dell'Istituto di Medicina Tropicale di Liverpool ).

Il libri di Maria Montessori (1870-1952) furono bruciati dai nazisti, prima a Berlino e poi a Vienna durante l’occupazione nazista dell’Austria. Perché faceva tanto paura? Fonda nel 1907 nel quartiere romano di  San Lorenzo la sua prima Casa dei Bambini e fin dall’inizio sconvolge i pregiudizi , per il suo impegno sociale e scientifico a favore dei bambini  disabili o di umile estrazione sociale, considerati handicappati per questo.

Il metodo della pedagogia scientifica, elaborato nel volume scritto e pubblicato a Città di Castello (Perugia) durante il primo Corso di specializzazione (1909), fu tradotto e accolto in tutto il mondo con grande entusiasmo: per la prima volta veniva presentata una immagine diversa e positiva del bambino, indicato il metodo più adatto al suo sviluppo spontaneo e dimostrata la sua ricca disponibilità all'apprendimento culturale, i cui possibili risultati non erano stati mai prima immaginati e verificati.

Fonda nel 1924  (anno della Fondazione del movimento Surrealista di André Breton, incentrato nel progetto di ricostituire in unità la personalità divisa dell’uomo moderno), la Opera Nazionale Montessori: è costretta a dimettersi nel 1934 perché i fascisti volevano orientarla e fugge in Olanda ed in India da dove torna nel 1947 alla fine della guerra

Per oltre quaranta anni Maria Montessori sarà presente non solo nella diffusione del metodo, ma anche nella ricerca scientifica in vista della liberazione dell'infanzia ("la vera questione sociale del nostro tempo") e della difesa del bambino, l'essere fino ad oggi dimenticato e sostituito dall'adulto. Dopo Il metodo, ora conosciuto come La scoperta del bambino, altre opere vedono la luce: Antropologia pedagogica, L'autoeducazione nelle scuole elementari, Il bambino in famiglia, Psicoaritmetica e Psicogeometria, tutte tradotte all'estero dove il metodo va intanto diffondendosi in modo sempre più vasto. Non solo  ha scoperto e valorizzato i "nuovi caratteri" del bambino e la sua insostituibile funzione nella conservazione e nel perfezionamento dell'umanità ("il bambino padre dell'uomo"). Della sua incessante esplorazione  su Come educare il potenziale umano , scaturiscono le sue idee finali. L’idea della educazione alla pace e idea della educazione cosmica.

Don Lorenzo Milani (1923-1967), già Signorino Dio e Pittore, come si definì una volta mentre a 20 anni studiava da artista all’Accademia di Brera a Milano (sotto i bombardamenti degli alleati), che nel 43 prende i voti e si dà alla predisposizione all'ascolto e all' "attesa",nel 1954 dà per così dire il cambio (senza saperlo?)alla opera della grande Maria Montessori morta due anni prima, quando- dopo una sua prima destinazione alla parrocchia di San Donato- viene  inviato per punizione a Barbiana , Priore della chiesa di S. Andrea nella piccola parrocchia sul monte Giovi, nel territorio di Vicchio del Mugello. Lui che già aveva maturato la distanza tra cultura Accademica e sua interpretazione dell’architettura contemporanea (l’esperienza collettiva del gruppo di giovani intorno a Michelucci creatore dell’edifico modello del razionalismo italiano degli anni 30: la Stazione di Firenze) e della forza non formalistica della pittura  e dell’arte (scrive il libro scandaloso Università e pecore), radicalizza  nell’impatto con la cultura contadina e con l’analfabetismo dei montanari la necessità di dare più centralità alla scuola, vista come processo di “restituzione della parola” a chi soggiaceva, pur stando nei margini, all’incombente al nascente consumismo – nella miseria della propria incomunicabilità –. Non è curioso che, in una delle interviste di seguito riportate, uno dei nostri Amici artisti parli di sé (e in genere della loro condizione diffusa) come di un “popolo dei senza parole?.

Dalla osservazione che “ la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale, nasce il suo metodo ed un suo libro famoso: Lettera a una professoressa, su un anno di attività nella scuola di Barbiana.

 “Per lui prete la scuola era il mezzo per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la parola ai poveri perché diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero. Con quella tenacia di cui era capace quando era convinto di avere intuito una verità andò a cercare uno ad uno tutti i giovani operai e contadini del suo popolo. Entrò nelle loro case, sedette al loro tavolo per convincerli a partecipare alla sua scuola perché l’interesse dei lavoratori, dei poveri non era quello di perdere tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone, ma di istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale. "Voi – diceva – non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo". Aveva una dialettica e una capacità di leggere dentro straordinaria. Riusciva in ognuno a toccare e far vibrare la corda più sensibile. Nella sua scuola raccolse giovani operai e contadini di ogni tendenza politica, presenza che mantenne e ampliò perché dimostrò di servire la verità prima di ogni altra cosa: "vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette", disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola di San Donato a Calenzano; una scuola dove l’impegno sindacale e quindi l’impegno sociale era considerato come un preciso dovere a cui un lavoratore cristiano non poteva sottrarsi. Attraverso la scuola ed i suoi giovani conobbe i veri problemi del popolo. Entrò nelle famiglie come uno di loro pronto a dare un aiuto su qualunque questione. (cfr.: http://www.donlorenzomilani.it/don_milani/)

Compie una grande rivoluzione culturale, didattica e pedagogica che rifiuta l'indifferenza, la passività negativa e motiva fortemente l'allievo. La centralità che attribuisce anche alla educazione e alla sollecitazione alla scrittura, sono di una enorme attualità, considerando l’analfabetismo di ritorno così diffuso oggi, soprattutto nel nord- Italia più economicamente avanzato e dove domina la cultura acritica della “società dello spettacolo”.

“Il desiderio d'esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l'amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”.

Don Milani muore nel 1967: l’anno dopo esce il libro per tanti di noi cult, L’istituzione negata ,del fondatore di Psichiatria democratica, Franco Basaglia, colui che riuscì a far approvare la legge 180 sulla apertura dei manicomi e soprattutto colui che, come Don Milani che si era spogliato della sua superiorità professionale per farsi uomo tra gli uomini, sospende, mette tra parentesi ogni pregiudizio terapeutico, per poter “liberare” il malato e “raggiungerlo” su un piano di libertà.

 "Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (...) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone": così scrive nel 1961 quando diventa direttore del manicomio di Gorizia, dove sono 650 internati.

Il lavoro compiuto in un rinnovato sistema relazionale basato sull’ascolto e sulla sollecitazione individuale di pazienti ritornate persone, porta Basaglia nel 1971, quando diviene direttore del Manicomio di Trieste, il San Giovanni, che aveva allora 1200 pazienti, a ribadire che la Psichiatria “che non aveva compreso i sintomi della malattia mentale, doveva cessare di giocare un ruolo nel processo di esclusione del “malato mentale”. Un processo di esclusione, egli dice, chiaramente voluto da un sistema politico “convinto di poter annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, per potersi riconoscere ideologicamente come una società senza contraddizioni”

Molto è noto dell’opera straordinaria di Basaglia. Rileggere oggi il “racconto”, ne L’istituzione negata, del lungo processo collettivo di scardinamento del pregiudizio  e di ripensamento del rapporto tra personale medico e di custodia degli ospedali psichiatrici e degli uomini che vi erano stati fino allora “sigillati” per sempre, è di grande dirompenza ed attualità. Se pensiamo al punto in cui siamo oggi in Italia nel sistema carcerario. Qui, a conclusione di questo sommario ripercorrere il filo rosso che fa da trama tra Bel Paese e Bel Paese Bello, voglio ricordare anche un’altra strana ricorrenza, tra tutte le esperienze rivoluzionarie ricordate: il ricorso alla pratica dell’arte o la dedizione dell’arte , per il compimento della finalità liberatoria e di consapevolezza critica di uomini esclusi. Infatti anche Basaglia, a Trieste, istituì subito dei laboratori di pittura e di teatro, li trasformò in cooperative di lavoro ed economicamente sufficienti, e proprio lì a Trieste decide lui e le sue equipe insieme ai “malati di mente” di uscire nel mondo, insomma di lanciare in modo eclatante la deliberazione di apertura delle porte dei manicomi,e lo fa facendo sfilare per le vie di Trieste in corteo una “macchina scenica”, un cavallo costruito in legno e cartapesta, seguito da medici, infermieri, malati ed artisti.

E’ un qualcosa che mi fa ripensare alla grande sfilata per le vie di Mosca nel 1918, per la festa della rivoluzione, di grandi sculture costruttiviste astratte e suprematiste su carri, a indicare la compenetrazione di arte e  progetto politico e di libertà sociale. Sappiamo che quel progetto integrato è stato sconfitto dal muro della inconsapevolezza culturale popolare, ma io credo oggi anche dalla mancanza di “condivisione”, insomma dall’elitismo culturale dell’epoca nonché a causa della “separazione tra i campi” di azione dell’uomo moderno (tra politica, arte, scienza, economia, etcetera). La condivisione, la processualità interdisciplinare e l’uguaglianza dovevano maturare ed hanno maturato attraverso il sangue, nel novecento.

Mentre per altro verso, mi sembra che la presenza di arte, artisti, poeti in tutte le iniziative che quel filo rosso attraversa, filo che indubbiamente raggiunge oggi anche la storia degli Amici della Comunità di Sant’Egidio tra i disabili, vada a muoversi parallelamente al darsi della storia dell’arte contemporanea, che proprio oggi si afferma non come “oggetto”, ma come traccia e come evento di “relazione” con l’altro, dove la creazione è “messa in scena”  di tracce, scarti, rifiuti, frammenti della attuale concomitanza di frammentazione del soggetto e dei linguaggi. E’ la opera d’arte infinita, che negli ambiti più avanzati delle tecnologie e della rete digitali si produce in un procedimento continuo di consegna e rielaborazione dell’altro.

In questo senso giungo a parlare di una specie di Grande Opera di Arte Relazionale, per il complessivo lavoro in corso degli Amici, ed - emergenti nel suo flusso operativo- di Opere individualmente realizzate e compiute.

 

Simonetta Lux

 

* Così si identifica Micaela Vinci in una comunicazione digitata al computer, definendo la percezione della propria condizione di handicap comunicativo, condivisa da molte delle persone di cui parliamo. Micaela ha una sordità profonda ed è muta, ma la sua capacità di pensiero e comunicativa è attivata attraverso il computer e il metodo della comunicazione aumentativa.

 

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