transire e rimanere.humanitas
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con barbara baroncini, irene fenara, simona paladino, davide trabucco
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comunicazione spedita da/communication sent by:
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il 24.1.2015



communicazione padre/father
Osservazioni quotidiane. Mutamenti nel paesaggio e variabili di percorso



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L’inizio e la fine di Bologna

I binari della stazione Zanolini sono collocati in un’area interrata, cosicché l’attraversamento dei treni non è visibile ai ‘bolognesi’, tant’è che non tutti sanno che in quella zona si cela una stazione ferroviaria attiva.
La ‘sotterraneità’, proprio perché nasconde alla vista, genera l’idea di una dimensione clandestina, un mondo che si muove all’oscuro dalla luce del sole, ai limiti dell’illecito.
Le pareti di cemento della galleria ferroviaria sono ricoperte di scritte e graffiti: un primo indice di una zona che ‘sfugge al controllo’. Oltre ai graffitari, altre presenze ‘clandestine’ si possono incrociare fugacemente mentre si è in attesa dei treni: a volte si vedono passare persone che si muovono in modo anomalo: oltrepassano frettolosamente la banchina, attraversano i binari e si dirigono nelle zone nascoste dello spazio sotterraneo. A volte sono giovani, ho visto anche qualche ragazza, altre volte passano fischiettando come se per loro fosse un percorso quotidiano. Capita di sentire gli echi di voci, di persone che si chiamano, si cercano o si identificano tra loro. Non saprei indicare una caratteristica che distingue questi individui, però in qualche modo si riconosce che non si tratta di pendolari. Mi è successo di intravedere sul treno in movimento alcuni spazi rientranti lungo la galleria, dove sono presenti residui di qualche attività umana: cartoni, coperte, spazzatura. Qualche volta, sempre dal finestrino del treno, ho anche visto delle persone sostare in quegli antri.

Emergendo in superficie, solo ora l’area appare ‘libera’ dall’ingombro di una serie di cantieri che hanno occupato la zona per anni. Cantieri che in realtà non davano l’idea di qualcosa in costruzione, ma al contrario assegnavano allo spazio una strana connotazione di abbandono, tant’è che vederlo privo delle solite reti arancioni, dei pannelli in legno e tutto il resto mi ha un po’ sorpreso, come se queste cose facessero parte del luogo da sempre. Quegli elementi da cantiere creavano ulteriori antri nascosti, come se la stazione fosse un’isola a parte rispetto alla città, separata dall’area residenziale circostante, che ora invece mi pare così incombente. La rimozione del cantiere è avvenuta in modo abbastanza repentino solo negli ultimi mesi, periodo in cui ho notato operai al lavoro, mentre per anni mi è parso quasi un cantiere fermo. Forse qualche petizione ha accelerato i lavori, per rendere finalmente l’area ‘dignitosa’ e sgombra da ogni impedimento visivo, probabilmente anche nel tentativo di scoraggiare questo viavai poco ‘decoroso’. Un piccolo deserto è stato quindi creato tra i palazzi e il fabbricato dei viaggiatori, aprendo un area che è puro attraversamento, come un corridoio che va necessariamente percorso per spostarsi dalla ‘porta di ingresso’ di Bologna, alla città ‘vera e propria’. Ora, quando affioro dal sottosuolo, la vista può spaziare lungo lo spiazzo ben pavimentato: tutto è stato spianato e ‘levigato’, privato di qualunque altura, nemmeno un cespuglio in cui l’occhio può imbattersi, soltanto i palazzi residenziali sorgono come funghi dalla linea del suolo. Tutto ciò rende ancora più stridente il rapporto tra le due dimensioni: quella sotterranea e quella superficiale. Unici punti di connessione sono alcune grate che permettono ad un po’ d’aria e di luce dello ‘spazio di sopra’ di filtrare nello ‘spazio di sotto’, mescolando l’atmosfera delle due dimensioni come attraverso un colino.

I palazzi che riempiono il campo visivo sembrano disabitati come quelli dei dipinti quattrocenteschi della Città Ideale. Spazi puliti, con i marciapiedi in ordine e le tinte sugli intonaci brillanti come se fossero ancora fresche, senza una crepa, senza un alone dato dall’usura. C’è la sensazione del nuovo, quel nuovo che dà l’idea di intonso, quasi ‘innocente’ come pagnotte di pane appena sfornate o scarpe appena comprate che odorano ancora di plastica. Una geometria misteriosa definisce gli edifici e gli spostamenti degli individui. Le finestre e le balconate perfettamente simmetriche, colonnati regolari pitturati con vernici lucide monocrome e dai toni vivaci, in pan dan con i muri squadrati da decorazioni colorate. Le zone erbose sono contenute dentro argini di cemento rettangolari, sorta di piscine d’erba, che suddividono lo spazio calpestabile da quello vegetale, ridotto a ridicola aiuola. I passaggi pedonali rettilinei circumnavigano i palazzi e sono segnalati da una pavimentazione tendente al rosso. Tra un palazzo e l’altro ci sono pensiline di plastica che proteggono i passanti in caso di maltempo. Le linee blu dei parcheggi tracciano rettangoli allineati, in cui gli automobilisti possono posizionare gli autoveicoli in modo ordinato ed efficiente. Una serie di cartelli segnalano che l’area è ‘protetta’: la presenza di videosorveglianza diventa come una bonifica del territorio da presenze indesiderate. Ogni possibile imprevisto è avversato come un nemico invisibile: un’attitudine all’ordine e al controllo di ogni cosa che si muove.

La linea ferroviaria diventa una faglia che divide un mondo sotterraneo ‘indecoroso’ da uno spazio ‘ideale’, in cui in sembra che la dimensione del transitorio si contrapponga alla dimensione della residenzialità. Questi palazzi sembrano essere più che altro una scenografia: la mess’in scena di un’idea di residenza. I cartelli segnalano che gli appartamenti sono ancora in vendita, le saracinesche sono chiuse, i passanti rari. Chi sono i residenti? Dove sono?
Cerco altri punti di vista. Guardo sul web: digito “Stazione Zanolini Bologna” e fin da subito articoli che titolano cose come: “degrado e incuria” , “pericoli per gli utenti”, “degrado preoccupante”, ecc.
La cosa mi colpisce. A quanto pare ho attraversato per anni una situazione di “degrado” e non me ne sono accorta, oppure il ‘degrado’ è questa sottile sensazione di disagio che a tratti ho provato anch’io nell’attraversare questo luogo?

«Stazione Zanolini, deserto e incuria: ‘Non prenderei mai un treno lì sotto’», questo il titolo di un articolo su BolognaToday, l’8 luglio 2014. Chi è che parla? Certo non un pendolare, che ovviamente i treni, “lì sotto” li prende eccome se vuole tornare a casa! Più avanti, la giornalista si preoccupa del “totale deserto” della stazione proprio nell’ora di punta. Segue il parere di una signora alla fermata dell’autobus: “Io lì sotto per prendere il treno? Mai! Se non ci va nessuno un motivo c’è”. Ecco svelato il punto di vista, da cui il titolo dell’articolo! Il tutto mi pare un po’ forzato: scorro in su e riguardo la data in cui è stato scritto l’articolo: siamo a luglio e quindi mi sembra ovvio che il traffico sia più scarso del normale. D’altronde questa è una stazioncina secondaria, che accoglie un’unica linea ferroviaria extraurbana usata soprattutto da studenti e lavoratori che abitano fuori Bologna.
Quello della giornalista e della signora che aspetta l’autobus è il punto di vista di chi sta nel centro della città e che guarda verso un ‘fuori’ che appare pericoloso e disorganico. Un ‘fuori’ che inizia fin dal punto di connessione della città con la periferia: stazione Zanolini come un tunnel di accesso dell’esterno, ancora più pericoloso perché sotterraneo, nascosto alla vista, potenziale punto di ‘ristagno’ dell’illecito.
Il sottotitolo dell’articolo cita: «Diverse proteste, petizioni e interventi politici per richiamare l'attenzione sulla fermata della ‘Veneta’. Intorno palazzi appena costruiti, ma la stazione a pochi passi dal centro non è certo all'altezza». Quei palazzi, che a me sembravano un contorno rispetto alla stazione, qui diventano centrali: chi parla è dentro quei palazzi a guardare da una finestra ciò che accade ‘fuori’. I palazzi diventano il dato di confronto con la stazione, che, per essere così vicino al centro non è sufficientemente decorosa. Certo, fossimo in una zona periferica la cosa potrebbe essere anche perdonabile, ma così, «a pochi passi dal centro», così è inaccettabile!
Rimango con un po’ d’amaro, perché l’articolo non spiega, mette insieme un po’ di impressioni, cita fonti di dubbia utilità come la signora in attesa del suo autobus, e attribuisce il senso di ‘degrado’ a un po’ di sporco, un vetro rotto e alla scarsità d’afflusso di utenti. Tra le righe, si pone una certa distanza tra la popolazione ‘urbana’ e quella di pendolari, tra chi risiede nel ‘centro’e chi vive la città in modo transitorio, tra quei palazzi «appena costruiti» che sono ancora ‘centro’ perché sono nuovi e puliti e la stazione che è già ‘periferia’ perché è sporca e pericolosa.

Cambio sito, trovo una pagina dedicata all’Associazione pendolari Bologna-Portomaggiore : ecco finalmente il punto di vista dei pendolari. Qui trovo una serie di lettere da parte di utenti che denunciano lo stato di ‘degrado’ della stazioncina e richiedono l’intervento delle istituzioni. Oltre alle prevedibili rivendicazioni riguardanti la pulizia e l’illuminazione, ciò che viene denunciato è soprattutto lo scarso controllo, in mancanza del quale l’area interrata diventa «terra di nessuno», dove un «andirivieni di persone ‘poco raccomandabili’» crea «disagio all’utenza ormai succube e impaurita». In certi punti un po’ esagerato, lontano dalla mia esperienza personale, alcune descrizioni figurano una zona fuori da ogni controllo, una sorta di selvaggio west.
Appare chiara la denuncia di una ‘vita parallela’ che il luogo ha assunto, che risulta disturbante e insopportabile agli utenti. Non leggo da nessuna parte di casi di aggressioni o particolari danneggiamenti avvenuti (se non qualche evento isolato come i danni alle sedie o ai bidoni della spazzatura), eppure la sensazione di minaccia risulta fortissima.

Da un articolo all’altro, mi sembra ci sia una ricerca continua di trovare i colpevoli del ‘degrado’ che, a partire dal un ‘centro’, vengono identificati nelle fasce ‘periferiche’ o ‘marginalizzate’. Nel primo articolo la tesi di fondo è che lo spazio appartenga al centro storico, per questo dovrebbe rispecchiare la vita del centro storico, essere quindi un luogo residenziale, pulito, decoroso, adatto per le anziane signore che aspettano gli autobus. Nel secondo articolo si presuppone che lo spazio sia unicamente destinato all’uso dei pendolari e quindi dovrebbe assecondare le esigenze dei viaggiatori. Non si ammettono contaminazioni, tutto ciò che non rientra nel prestabilito è illegittimo e va eliminato, anzi respinto lontano, spostato dal proprio campo visivo.
Una definizione di uso ‘lecito’ ed ‘illecito’ dei luoghi che passa attraverso l’incapacità di condivisione degli spazi. Ogni luogo diventa un ghetto, adibito ad una sola funzione e fruito da un solo tipo di utenti. La paura che lo spazio diventi «terra di nessuno» si associa all’idea di uno spazio deprivato dalla sua funzione, cosa che sembra generare terrore e sgomento. Una stazione che viene usata anche per attività estranee a quelle dei pendolari è qualcosa che sconcerta e che genera paura. Da qui l’esigenza di controllo, la richiesta della presenza di vigilanti o di videosorveglianza, spesso evocata nelle lettere di protesta e richiesta dagli utenti stessi come un elemento essenziale per la risoluzione dei problemi. Mi turba un po’ il fatto che liberi cittadini richiedano di essere posti sotto un costante monitoraggio. La videosorveglianza è percepita come sinonimo di sicurezza, a me richiama più un’idea di controllo, e mi rievoca l’immagine del grande fratello orwelliano.

Mi sposto ancora sul web e trovo un articolo su Unibo Magazine che risale a settembre 2014: «Aperto all'ex Stazione Veneta un nuovo punto ristorativo per gli studenti universitari» . A quanto pare, una parte del fabbricato dei viaggiatori è stato ceduto all’Alma Mater dal Comune di Bologna per creare una mensa per gli studenti che ha inaugurato il 25 settembre 2014. Nei mesi seguenti è prevista anche l’apertura di sale studio e di spazi dedicati alle associazioni studentesche al primo piano dell’edificio. L’iniziativa sembra un tentativo di portare l’idea di ‘centro’ in questa zona che rischia la marginalizzazione poiché abbandonata al ‘degrado’. E allora si immagina che un viavai di studenti possa vivacizzare l’area, portando con sé quel ‘sapore’ di ‘centro’, sempre più associato all’idea di ‘zona universitaria’. Probabilmente anche sperando di prendere ‘due piccioni con una fava’, favorendo il deflusso dei giovani dal centro storico, dove le proteste contro il ‘bivacco’ e l’eccessiva ‘vivacità’ hanno aperto una serie di conflitti sociali tra i residenti e la popolazione studentesca.
L’area Zanolini continua a collezionare definizioni che presto diventano ‘ex’: ‘ex Veneta’, ‘ex San Vitale’, in una sostituzione continua di nomi che sono solo il riflesso della sua stratificazione d’uso nel tempo. Si continua a sovrascrivere nuovi ‘livelli’ senza aver risolto le criticità dei precedenti, come se i nuovi usi potessero cancellare i problemi dei vecchi, in una sovrapposizione di piani, anche architettonici. C’è il livello sotterraneo, di cui si parla poco e se lo si fa è per denunciarne il degrado. Poi c’è il livello del suolo, quello spianato dalla pavimentazione, libero da ogni impedimento visivo per agevolarne il controllo, in modo che da finestre e terrazze dei palazzi circostanti si possano vedere bene i passanti. Infine c’è l’edificio dei viaggiatori, o meglio l’ex edificio dei viaggiatori, che dovrebbe diventare ‘l’edificio degli studenti’, costituito da un piano terra per socializzare e ristorarsi ed un primo piano per svolgere le attività culturali. Nel frattempo l’edificio è come in sospeso: in parte sembra in corso di deantropizzazione, come l’area in cui le porte esterne sono state murate, che corrisponde al lato in cui c’era il bar ma che ora è stato chiuso, l’altro lato invece è chiuso perché in costruzione, in attesa di riaprire con la sua nuova funzione di mensa. Nel frattempo la sala d’attesa è inutilizzabile, con l’accesso chiuso da un lato non è nemmeno attraversabile. Uno spazio che dovrebbe essere l’emblema dell’apertura e del passaggio di persone sembra invece diventare sempre più ermetico, inaccessibile ai non-addetti, ai non-soci della misteriosa Associazione dei Liberi Pensatori che occupa l’area del bar, e nel futuro prossimo inaccessibile anche ai non-universitari. Più che ‘creare’ luoghi queste operazioni di ‘sovrapposizioni’ sembrano negarli, nell’affanno per inserire nuove funzioni, purché non si dica che lo spazio sembra abbandonato. Tentativi che ‘piovono’ dall’alto, in parte incompatibili con il luogo, o comunque forzati, strumentalizzati e funzionali ad una certa rappresentazione della città.

L’operazione sembra una stratificazione di materiali incompatibili accostati l’uno all’altro senza una logica precisa come in un collage surrealista, nel tentativo di forzare una convivenza tra elementi, finalizzato in ultimo all’occupazione dello spazio da parte di chi è ‘legittimo’, con conseguente ‘sfratto’ degli indesiderati.
La percezione è quella di un modo di vivere la città parcellizzato, suddivisa in unità separate: la ‘zona universitaria’ è quella dove ci sono gli studenti, la ‘zona a traffico limitato’ è quella per i pedoni, le zone residenziali per i residenti, la zona fiera per le fiere, la zona industriale per le industrie, ecc.
Una città divisa in ‘zone’, termine che è diventato parte della vita quotidiana anche grazie ad un uso ‘istituzionalizzato’ che ha reso oggettive alcune di queste zone, come la ‘ztl’, che ha dei confini ben precisi e invalicabili, pena multe salate! Si delinea un modo di pensare la città attraverso una suddivisione per funzioni, che irrigidisce il tessuto urbano attraverso un’operazione di semplificazione della realtà. I problemi sorgono quando ci si accorge che le cose sono un po’ più complesse: all’interno della zona universitaria ad esempio, non ci sono solo studenti ma anche residenti, che si lamentano della confusione soprattutto notturna prodotta dai giovani, che impedisce loro di dormire. Gli studenti d’altro canto sono sordi a qualunque compromesso, sicuri che quello spazio sia a loro unico beneficio. Le zone a traffico limitato, invece, rendono il centro della città uno spazio ad uso e consumo di una popolazione di pedoni, sempre più inutilizzabile da commercianti e residenti costretti a spostarsi in zone periferiche della città, dove poter arrivare in santa pace nei garage delle proprie case!
“Degrado” è qualcosa che si sgretola, ma forse non va ricercato nei muri della città, quanto piuttosto nelle coscienze individuali, sempre più incapaci di ammettere una pluralità di punti di vista. Un diverso uso dello spazio rispetto alle proprie esigenze viene percepito come illegittimo e questa ‘illegittimità’ diventa ‘degrado’. Il rapporto con l’altro-da-sé diventa inevitabilmente uno scontro, in una vera e propria lotta alla conquista dello spazio.



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